La recente sentenza n. 1766/2020 del Consiglio di Stato ha affrontato un tema piuttosto importante nel novero delle richieste dei titoli edilizi, chiarendo a chi spetta tale compito nelle ipotesi in cui il bene sia in comunione legale tra i coniugi.
A sollevare il caso dinanzi alle scrivanie del Consiglio di Stato è stata una coppia di coniugi, la quale faceva realizzare un garage per il quale presentava una domanda di concessione in sanatoria al Comune, in epoca evidentemente successiva alla conclusione del lavoro. Il Comune avviava così l’istruttoria, a cui faceva seguito l’integrazione presentata dagli stessi coniugi a distanza di 17 anni, con successivo rilascio della concessione in sanatoria richiesta.
Tuttavia, a questo punto, il proprietario di un fabbricato posto in zona limitrofa procedeva con l’impugnare il provvedimento di sanatoria con ricorso al Tar, il quale – però – respingeva l’istanza del ricorrente. Il proprietario del fabbricato procedeva pertanto a rivolgersi al Consiglio di Stato, lamentando che la richiesta della concessione in sanatoria fosse pervenuta da parte di uno solo dei due coniugi proprietari, e che l’integrazione documentazione richiesta dal Comune fosse giunta a distanza di ben 17 anni.
Il ricorso non viene tuttavia accolto dal Consiglio di Stato.
Per quanto concerne, in particolar modo, la richiesta del titolo edilizio da parte di uno solo dei due coniugi proprietari, i giudici affermano che “in tema di soggetto legittimato all’istanza di rilascio di titolo edilizio […] inequivocabilmente il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene, pertanto l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso“. Nelle ipotesi di pluralità di proprietari del medesimo immobile, la domanda di rilascio di titolo edilizio “dovrà necessariamente provenire congiuntamente da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà sull’immobile”.
Ad ogni modo, quanto sopra vale come riferimento generale. Tuttavia, i principi sopra esposti non sono applicabili per gli immobili che ricadono in comunione legale tra i coniugi, come nel caso in esame, perché la comunione di un bene fra due soggetti non è equiparabile a una comproprietà, ma è invece qualificabile come un istituto senza quote. Come a dire che, in un regime di comunione legale dei beni, il singolo coniuge non è proprietario di una singola quota ma dell’intero bene. Ne deriva, insomma, che entrambi i coniugi sono ben legittimati a presentare l’istanza di sanatoria in autonomia, senza che sia necessaria una richiesta congiunta.
Per quanto invece riguarda il ritardo temporale di 17 anni per la presentazione delle integrazioni, i giudici osservano che questa circostanza “non implica anche che un’eventuale integrazione tardiva non possa essere presa in considerazione in senso assoluto, trattandosi di una causa che legittima l’Amministrazione ad archiviare (e non, infatti a respingere nel merito) la pratica, ma non implica decadenza del potere di sanatoria”.
Ancora, nella pronuncia nella quale – sostanzialmente – si precisa che la tardiva integrazione documentale non equivale a una causa di decadenza del procedimento, si legge che “la documentazione tardivamente prodotta dall’istante è sempre esaminabile e suscettibile di portare a determinazioni diverse. Il Collegio protende per tale soluzione, perché la norma non è strutturata in modo da configurare una sorta di ipotesi di silenzio-rigetto. Di conseguenza, se è vero che nella specie oltre al ritardo dell’interessato nel provvedere all’integrazione documentale vi è stata anche una colpevole inerzia del Comune che non ha adottato le determinazioni ai sensi dell’art 39, comma 4, L. n. 724-1994”.
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